Anno 2010 Sahara Libico: girovagando tra l’Acacus e il Murzuq…

La prima duna ti coglie di sorpresa, ti satura di energia e ti sorprende sulla sua cresta con rapidi e pesanti passi nella candida sabbia rossa…

La prima duna si dimentica in fretta: è modesta, “singola”, lontana dalle ben più memorabili compagne…

 

Dopo il breve viaggio aereo da Roma, lo sbarco notturno all’aeroporto di Tripoli, nella sua ala decadente, con i negozi chiusi e con i metal detector sonanti solamente per folklore, non è stato illuminante…

Il pullman ci conduce per le strade illuminate a giorno e qua e là decorate con immani gigantografie del grande dittatore indigeno…una, con nostro sommo cordoglio, ritrae anche Berlusconi insieme a Gheddafi (ovviamente in formato 30*40 metri)!

L’aeroporto e le strade di Tripoli sono costellate di gigantografie di Gheddafi…anche con Berlusconi!

L’albergo sarebbe un piacevole punto di arrivo alle 3 di notte per una dormita prima del viaggio che ci attende il giorno successivo…sarebbe…se non fosse una topaia di pavimenti bagnati, insetti nascosti, porte inchiudibili, letti pelosi (!) e 8 piani di scale senza ascensore…bagagli inclusi!…Il buon sacco a pelo farà per tutti noi la sua prima uscita sopra le coperte delle camere  non proprio ospitali!

L’indomani a Tripoli cade una minuscola pioggerellina che mi induce a rinnovare il velo sulla testa, più per proteggermi dall’acqua che per rispetto della cultura locale, devo ammetterlo! Però abbiamo poco tempo per visitare qualche strada di questa città che ha un’aspetto diverso dalle altre metropoli nordafricane viste finora…avrò tempo al ritorno dal deserto per approfondire le mie impressioni: adesso è il momento di riprendere l’aereo e solcare i cieli alla volta di Sebha (o come volete voi, visto che ogni cartina la scrive in modo diverso…L’importante in Libia è pronunciare le consonanti, il resto non conta!).

I tuareg non sono così BLU come li aspettavo. Non sono riuscita a capire l’origine del soprannome (forse perché i giovani seguono nuove mode di colori diversi, o forse perché il blu è solo una leggenda arrivata in occidente, o forse perché blu è il colore del cielo “SempreBlu” del deserto e dell’acqua delle oasi…), comunque i loro teli aggrovigliati sulle teste scure risultano essere bianchi, arancioni, verdi…e già fanno intuire la solarità dell’anima di questo popolo…

Le nostre guide tuareg conoscono tre parole in italiano, tre in francese e tre in inglese: è facile capire sin da subito che comunicheremo a gesti per tutta la settimana che trascorreremo nel deserto!!!

Per fare la foto a questo anziano tuareg ho dovuto trattare a lungo: un solo misero scatto in cambio di una gigantesca collana che rappresenta il deserto dell’Acacus…però il suo volto era eccezionale!

L’ostacolo comunicativo inizialmente ci è parso incolmabile e frenante…dopo poche ore ci ha invece spronati a nuove forme di comunicazione…dopo un giorno abbiamo cominciato a riesumare dalla nostra memoria antiche canzoncine per bambini che prevedevano gesti comprensibili in ogni parte del mondo (non dimenticherò mai di aver insegnato ad un tuareg come ballare “Ci son due coccodrilli….”!!!), dopo pochi giorni già distinguevamo tra parole arabe e tuareg traducendole ai nostri eccelsi discepoli in italiano (continuando ovviamente a cantare canzoncine di ogni tipo sia in italiano che in tuareg!)!

Dall’aeroporto di Sebha, partiamo sui fuoristrada alla volta dell’ostello di Fijeja (anche qui l’importante è dire Fjj!) che pur senz’acqua, mostra più accoglienza del tugurio Tripolitano, e poi alla volta di un posto dove cenare.

L’indomani diventa un susseguirsi di giorni e notti senza tempo, senza riferimenti, senza interruzioni tra deserti e deserti di forme diverse. E senza confini.

L’Acacus cela, nelle sue molteplici forme, rocce vivide di colori tonanti che si ergono da sabbie varianti dal giallo al rosso. Forme astratte e bizzarre che si sollevano dal nulla, archi da attraversare e pinnacoli da scalare, rocce di nero brillante che tendono al cielo, così terso e mai adombrato da qualsivoglia forma di varietà (sia essa nuvola o volatile).

E tra le rocce si scorgono i resti di antiche mani che scolpirono o colorarono questi angoli, in quel tempo in cui ancora “aridità” era parola lontana. E si scorgono forme di animali che oggi appartengono ad altri luoghi e di animali mai visti né qui né altrove. E uomini e donne danzanti; e colori rossi; e storie di caccia e d’amore; e vita là dove adesso tutto è immobile.

La preistoria e la storia avanzano nelle rocce che osserviamo quasi senza interesse, attratti dall’imponenza di uno spettacolo naturale che pare quasi esser solamente “disturbato” dalla presenza umana, attuale o passata che fosse.

Le rocce dell’Acacus

 Il Murzuq si copre di sabbia e dune oltre il limite dell’orizzonte, perde la cognizione della distanza e si fa soffice a contatto con i nostri piedi curiosi di vedere cosa c’è oltre, e poi oltre, e poi oltre…E ci coglie ogni sera ad osservare il tramonto da una duna diversa, possibilmente ancora non calpestata, a far kilometri (o metri?!) affossando le gambe nella sabbia al calar del sole, chiedendoci ogni sera se faremo in tempo a tornare al campo prima che tutto si copra col buio…

Il tramonto tra le dune del Murzuq

Prima di partire avevo letto della “Saharite”: una sorta di effetto del deserto su alcune persone che diventano più irascibili e suscettibili a causa dei forti campi magnetici e dell’aria resa elettrica dal vento Sahariano. Mi chiedo se chi ha scritto questa cosa sia mai stato nel deserto!

Il deserto è deserto: è vuoto! Ha una caratteristica principale: l’immensità, lo spazio. E di questa ti riempi ad ogni risveglio. La vastità di cui diventi parte s’insinua dentro di te e ti sovrasta, ti conquista, ti implode dentro con l’armonia di una grande entità. Il deserto è silenzio, silenzio vero: quello che non hai mai sentito in vita tua. E nel silenzio, interrotto solamente dal vento della sera, si fanno più forti tutte le tue parole, tutti i tuoi pensieri diventano rumorosi e non puoi fare a meno di ascoltarli. E mentre ti ascolti, il deserto entra in te e ti rende sua.

Deserto è pace o, meglio, contatto con te stesso.

Nel deserto ho ritrovato i miei impulsi, ho ritrovato i miei desideri ed i miei sogni, ed ho trovato una quiete che da tempo mi aveva abbandonata.

Impronte nel Sahara

Ovviamente “pace dei sensi” non significa azzeramento dei bisogni e nel deserto diventano evidenti quei gesti che normalmente leghiamo ad una quotidianità relegata all’intimità.

Primo fra tutti il bagno: nessuno si aspettava acqua nel deserto per potersi lavare e per questo eravamo tutti ben attrezzati con salviette di ogni genere, forma e dimensione. Il problema era soprattutto femminile: i tuareg, per quanto gentilissimi e molto comprensivi, non sono abituati a pensare ai bisogni di una donna e spesso decidono di fare soste in mezzo al nulla: nella pianura più sconfinata del Sahara non esistono arbusti d’acacia dietro ai quali nascondersi o rocce abbastanza alte da coprire una persona…così, spesso il gruppo è costretto a fare una seconda sosta, la sosta pipì femminile, non appena si presenta un arbusto alto almeno un metro ad almeno 50 metri di distanza!

Il problema per fortuna non si ripropone spesso: le rocce dell’Acacus e le dune del Murzuq ci hanno efficacemente protette quasi ogni volta…senza contare il buio della notte!

A 360 gradi piatto e rocce…

La notte……la notte cala lentamente tra le dune e cede il passo ad un’oscurità tale che sembra quasi piena di materia. Le notti senza Luna sono illuminate solamente dalle migliaia di stelle disposte in quelle sequenze a lungo studiate e chiamate costellazioni. Ogni sera al calar del Sole, il mio naso si volge in sù ed ammira, quasi sopraffatta, il nero più nero brillantemente “forato” da migliaia di punti luminosi. E mi improvviso autista e guida con i compagni di viaggio ai quali spiego la strada per raggiungere la nebulosa di Orione o Sirio o la stella Polare!

E mi accorgo che non ho nemmeno bisogno di alzare la testa per vedere il cielo: davanti a me, proprio dritto sulla linea dell’orizzonte, si scorgono le prime brillanti stelle, in genere mai scrutabili nelle nostre luminose latitudini. E’ sorprendente! E’ come se per la prima volta io riesca a scrutare un’altra parte del mondo! Sempre offuscata dalle luci e mai promotrice di sogni, quell’angolo di notte è lì: non sopra ma davanti ai miei occhi! Si staglia all’orizzonte ergendosi dal suolo con netto stacco, degno di un quadro astratto:  in basso buio e sopra tappezzato di brillantini! …E torno bambina!

L’alba nell’Acacus, tra il freddo e l’inizio del tepore…

La notte fa freddo, molto freddo. In tenda si dorme con i sacchi a pelo più pesanti e coperte e berretti di lana! Non eravamo preparati a tutto quel freddo (in effetti, pensandoci, 0 gradi non sono così pochi…eppure, dopo una giornata trascorsa sotto al sole a 30 gradi, sembrano molti meno!).

Ci copriamo con tutto quello che abbiamo, aspettando il giorno, ogni notte…E la sera impariamo presto ad imitare i tuareg: scaldandoci i piedi attorno al fuoco, bevendo il loro rituale, forte e caldo tè e cantando, consapevoli che in ogni angolo del mondo la musica continua ad unire i popoli più differenti.

Non esiste deserto senza un buon tè caldo con la menta fresca..

La notte di capodanno circondiamo il campo di tante piccole candele e tiriamo fuori, ognuno dal proprio “cilindro”, dolcetti e cibi tipici di ogni luogo…mangeremo il couscous dei tuareg il giorno dopo…per stasera mangiamo distanti: noi il cotechino e loro la loro carne…ci riuniremo per i dolcetti!

Finita la cena aspettiamo la mezzanotte e brindiamo con tristi succhi di frutta ACE…niente alcoolici in Libia! In compenso Suliman e Gulli gettano un po’ di benzina sulla sabbia ed illuminano il deserto con la scritta 2011: una brillante sorpresa senz’altro! …e poi viene il momento delle danze: dall’auto si accende lo stereo e si comincia a ballare! E poi si canta, in tuareg ed in italiano, tutti insieme ridendo! E poi un’occhiata alle stelle e poi nanna…domani è già oggi…ma è comunque un altro giorno qualsiasi da confondere tra gli altri nascosti nelle dune del Murzuq!

La sorpresa di capodanno delle nostre guide tuareg che illumina a giorno il cielo del nuovo 2011!

La mattina ci si sveglia facilmente: prima sorge la luna, poi il sole…il freddo fa il resto…

La mattina (come la notte) copro la testa con un bel cappello di spessa lana argentina che mi ha regalato mio padre di ritorno da uno dei suoi viaggi…lentamente si fa colazione, si smonta la tenda ed intanto il sole comincia ad illuminare il mondo…

Ogni giorno ripetiamo gli stessi gesti ai quali normalmente non siamo abituati e che diventano subito consuetudine. E dopo una breve passeggiata per salutar l’aurora (e/o per espletare qualche bisogno!), montiamo ancora una volta sui fuoristrada alla volta delle prossime dune, dei prossimi arbusti d’acacia secchi, dei prossimi desolati assolati panorami…

Ma il sole impiega un po’ di tempo per riscaldare il suo territorio preferito: verso le 9.00 tolgo il cappello e metto un telo sopra la testa. La mattina copro la testa a causa del freddo poi, con i primi passi nella sabbia (siano essi di ruote o di scarpe), a causa della polvere e poi, quando il sole giunge allo zenith e si avverte con insistenza il bisogno di bere, per il sole…I tuareg non mettono certamente il copricapo per folklore!

Tornata in Italia sarà quasi difficile distaccarmi da questa consuetudine di coprire i capelli, mi sentirò come una madre screanzata nei loro confronti: senza più cura di loro, li lascerò nuovamente liberi di prendere polvere, freddo e aridità senza mai proteggerli!

Ed è buffo pensare a come un’usanza che per noi donne occidentali è considerata svilente nei confronti del nostro genere, in quel territorio diventa un gesto di affetto per se stessi, un modo per prendersi cura di sé…

Mettersi il velo è un’arte che ancora non ho imparato bene…però i miei capelli e la mia pelle ringraziano sentitamente 🙂

E così passano i giorni tra le rocce dell’Acacus e tra le dune del Murzuq, nelle fredde notti ed i caldi giorni, con le nostre guide tuareg che cantano “C sn due cccdrll” e noi che cantiamo “Dabanì dabanì dabanìdebà”! Le auto si montano e si smontano come fossero pezzi di lego, si insabbiano e dissabbiano a seconda della bravura dell’autista e gonfiamo e sgonfiamo le ruote a seconda della quantità di sabbia del deserto (e non ci si meravigli a parlar di quantità di sabbia nel Sahara!!!).

Alla sera altre dune faranno da sfondo al nostro campo, monteremo nuovamente le tende e sentiremo salire il vento guardando il tramonto da una delle tante creste ancora non calpestate…

Soffici dune sahariane…

La mattina del secondo giorno dell’anno si risveglia ancora una volta tra le dune, al freddo, in un’alba spettacolare come sempre…

E’ il giorno delle oasi!

Le nostre guide tuareg sgonfiano ancora una volta le gomme fino al punto di farle sembrare forate e cominciamo una carambolica ascesa e discesa di innumerevoli dune come fossimo al Luna Park: ho paura…questa è la mia paura e quì, ancora una volta obbligata da me stessa a cercar di vincere ogni ostacolo, ammetto quì la mia sconfitta. Sembrano tutti divertiti da questo saliscendi e al mio deserto non resta altro che sbattermi in faccia ancora una volta me stessa, stavolta con le mie enormi, solitarie, difficoltà…

Ma le oasi si riempiono improvvisamente di colore, riflettono le sagome di palme verdi nel blu dell’acqua a contrasto con le dune di sabbia rossa che tutto circonda! E’ bello! E non è possibile descrivere un’oasi nel deserto se non come un’oasi nel deserto! Sembra quasi di riprendere contatto con il mondo, come se l’acqua fosse davvero l’origine della civiltà!

La notte torniamo tra le dune per un ultimo campo nella sabbia, un ultimo saluto al deserto ormai rinominato Tenerè, così come ci hanno insegnato i nostri tuareg…

L’oasi nel deserto è un’esperienza unica…

L’indomani, l’ultimo risveglio tra le dune ci guarda con più calma: ci prendiamo un’ora in più per una passeggiata mattutina tra sabbia e berretti di lana mentre il sole sorge…

I saliscendi tra le dune poi ci conducono per pranzo in un paese il cui nome contiene qualche T e qualche Q, ai piedi delle dune di fronte ad un’oasi…la civiltà si avvicina davvero!

Nel pomeriggio ripartiamo alla volta di Garama: antica capitale dei Garamanti, leggendario popolo che si dice avesse la facoltà di far fiorire il deserto…

L’antica Garama emerge dal suolo in molteplici e sottili pezzi di mura grigie di fango e sale, sopravvissute con sicuro mistero fino ai giorni nostri. Sarebbe uno spettacolo spettrale se non fosse per i colori che circondano questa “oasi” di storia: sopra il cielo azzurro e intorno il verde delle oasi ed il rosso del deserto. Ci divertiamo a perderci tra le indecifrabili vie e nella miriade di case fantasma come in un labirinto, ritrovandoci a scavalcare il muro dell’antico palazzo dei Garamanti per poter dare un’occhiata al suo interno completamente distrutto…Intorno è silenzio, come Tenerè insegna, dentro la città si odono rare le voci dei visitatori smarriti…Questo sito non ha alcuna valenza storica, eppure pare esserne impregnato, come spettrale monito di un’antica civiltà che tutto ha potuto e tutto ha abbandonato…

Le rovine dell’antica Garama, popolata dai leggendari Garamanti, che sapevano rendere fertile il deserto…

Non sazi, ci dirigiamo al museo di Germa che dall’aspetto sembra essere più una scuola italiana degli anni ‘70! Niente in particolare assorbe la nostra attenzione ed ormai stanchi di troppa “civiltà” ci dirigiamo verso il campeggio: stanotte dormiamo nei bungalow, in dei letti veri! Faremo anche la doccia, ci laveremo i capelli, non patiremo il freddo e non vedremo le stelle…Il deserto è meraviglioso, ma devo dire che questa serata ci occorre per ricondurci nel mondo reale senza subire traumi improvvisi!

Scesi dalle auto, in un’ultima alba del sud libico vista dal parcheggio dell’aeroporto, ci stringiamo a cerchio e cantiamo un’ultima volta “Dabanì dabanì dabanidebà” con i nostri amici-guide tuareg…

I loro occhi continueranno a guardarmi da lontano ogni volta che il cielo imploderà d’azzurro nell’inverno italiano ed ogni volta che andrò a ricercare me stessa…nel nero più nero dell’iride tuareg sembra realmente nascondersi il segreto di ogni cosa…e non dimenticherò nessuno dei loro sguardi!

“Tenimmerd” [=grazie] dico, “Tattegitt” [=prego] mi rispondono…

Per le nostre guide tuareg il deserto è come un accogliente salotto da vivere comodamente…

L’aereo ci offre un ultimo sguardo panoramico del deserto. Osserviamo i giganteschi cerchi di erba verde coltivata in mezzo alla sabbia: dall’alto ricordano quei cerchi nel grano di cui ogni tanto si sente sensazionalmente parlare in TV…che siano questi i popoli discendenti dei leggendari Garamanti, contadini del deserto?

Dall’aeroporto di Tripoli a Leptis Magna la strada è lunga ma almeno è una strada!

E così, giungiamo nel primo pomeriggio del nostro ultimo giorno libico in una delle più grandi tra le antiche città romane: Leptis Magna.

Il lungo cardo romano si apre con una imponente porta che spalanca alla città. Leptis è immensa. Ci si incammina tra gli antichi siti leggendo la guida ed improvvisando ipotesi tra l’una e l’altra struttura finchè non si giunge al teatro.

Come ormai per “innata esperienza”, entro nel proscenio alzando la voce per testare il suono di questo antico luogo. Come gli amplificatori di un concerto dei nostri giorni, il teatro rende la mia voce con forza nitida, nel silenzio circostante.

Leggo la guida che mi intima di salire i gradini senza voltarmi fino alla cima ed eseguo.

E quando mi volto, cumuli di ricordi affiorano alla mia mente: antichi teatri del sud toccati dalla mia voce in un passato ormai lontano…lo sguardo tocca il mare là, dietro al palco, e si tuffa fino a raggiungere nostalgiche memorie di una Marta che vorrebbe ancora esser se stessa interpretando il mondo intero…

Leptis è una vasta distesa di reperti storici che variano ironicamente da un’ottima ad una pessima conservazione, quasi senza mezzi termini. Da sfondo alla storia fa il mare: finalmente un’infinita distesa d’acqua contrasta e sconvolge l’immensa aridità dei giorni precedenti, facendo improvvisamente sentire la passata mancanza, come in un brusco risveglio.

Il mare sussurra per le antiche vie e ci accompagna risvegliando i sensi…

Il teatro di Leptis Magna, la gigantesca città romana che si affaccia sul mare alle spalle del deserto…

E’ giunto il momento, dopo un’ulteriore visita all’anfiteatro, di tornare definitivamente nella civiltà: Tripoli ci aspetta per un ultimo serale incontro con la Libia.

Inizialmente mi stringo vicino agli uomini, memore del disagio provato in altre città nordafricane. Ben presto mi accorgo che Tripoli è diversa: nessuno mi guarda con disprezzo perché donna occidentale, nessuno cerca di vendermi a tutti i costi il suo fantasmagorico prodotto, nessuno mi si avvicina nel tipico modo insistente che mi aspettavo. Solo la curiosità semplice e vera spinge i più temerari ad alzare uno sguardo verso di noi e a rivolgerci la parola per sapere da dove veniamo…Probabilmente la dittatura influisce sulla disciplina di un popolo, ma credo che il popolo libico abbia anche il merito personale di essere di per sé curioso con discrezione…avvolgente e colorato ma mai invadente.

E nell’aria serale decidiamo di mangiare la tipica Algarra al “baby camel”: niente di eccezionale ma non si può non assaggiare il cibo del popolo che ti ospita…

Anche nella notte Tripoli non è oscura, ho come la sensazione di sentirmi al sicuro…forse è solamente una sensazione, ma percepisco in Tripoli un popolo amico (bunga bunga escluso!!!).

L’albergo questa volta è quasi lussuoso, il letto ci avvolge per un’ultima notte africana.

Domani l’alba ci sorprenderà in aeroporto, tra le gigantografie del dittatore ed i rottami dell’edificio in ricostruzione, con un lontano sguardo all’arido, imponente, immenso e pieno, vicino Tenerè…

Tenimmerd Tenerè, tenimmerd!

Tenimmerd Tenerè…

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